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Etica, Estetica e Filosofia

Written by Foglio Spinoziano on . Posted in blog

« Tra i numerosi campi di interesse di Spinoza pare non ci sia posto per l’estetica; non solo non esiste un Tractatus aestheticus tra gli scritti spinoziani, ma neppure sembra che il il pensiero spinoziano – in fondo riconducibile (semplicisticamente) ad un materialismo puro – possa ammettere categorie estetiche come “bello”, “brutto”, “bene”, o “male”.
Tuttavia, la portata della speculazione del filosofo olandese è tale da aver portato a significativi cambiamenti iconografici, da intendere come segnali di una profonda riconsiderazione della filosofia nel suo complesso. Lo “Spinozismo” inteso come ratio vivendi, quasi contrapposto alle “superstizioni” delle forme storiche assunte dalle religioni – viste come foriere di intolleranza e fanatismo -, porta all’abbandono di un’iconografia consolidata che vedeva il filosofo impegnato nel dominio “eroico” delle passioni, per mostrare figure intente in una serena e imperturbabile meditazione. Per valutare il cambiamento verificatosi a cavallo tra il diffondersi del cartesianesimo e l’età dei Lumi, Reinhard Brandt propone il confronto tra due tele, una del XVII l’altra del XVIII secolo, che raffigurano praticamente lo stesso soggetto: un filosofo di fronte ad un leggio che tiene un libro aperto di fronte a sé. La prima risale al 1635, ed è firmata dal pittore olandese Salomon Konick (anche se la critica recente è più propensa ad attribuirlo ad un suo allievo, Abraham van der Hecken). Un filosofo, vestito di scuro, è seduto ad un tavolo poggiando il mento sul pugno, nel caratteristico gestus melancholicus che si ritrova – fra i tanti – nell’Eraclito della Scuola di Atene raffaellesca. L’altra mano stringe una penna, ma gli occhi (rivolti in un punto imprecisato alle spalle dello spettatore) indicano che la scrittura è stata interrotta da una riflessione; anche le linee contratte del volto confermano questa impressione. Alle sue spalle, un pesante tendaggio si apre – significativamente – su una nicchia in cui campeggiano un crocifisso e un teschio, le cui orbite sono rivolte verso il filosofo. Brandt si diffonde in un’acuta analisi degli aspetti “scenografici” della tela, tesi comunque a proporre il filosofo come l’elemento più rappresentativo di un più generale memento mori, così caratteristico nella produzione pittorica seicentesca.
La seconda tela è assai diversa e risale quasi esattamente a un secolo dopo: è infatti opera di Jean-Baptiste Chardin ed è datata 1735. Anche qui ritroviamo un filosofo seduto di fronte ad un leggio, ma l’atmosfera è molto più serena. Il tono cupo del primo quadro si è dissolto in tinte pastello e il protagonista ha un volto rilassato, affatto diverso dall’espressione tesa e corrucciata del suo predecessore. Anche qui c’è una tenda, il suo aprirsi non ha però nulla di teatrale e scopre una serie di oggetti domestici che non sembrano aver nulla di simbolico (in realtà è proprio la loro familiarità ad essere significativa). Ben più importante appare il calamaio in primo piano che, oltre a scandire lo spazio del dipinto, identifica il personaggio come vir faber pur senza mostrarlo direttamente intento nella scrittura. Il filosofo di Konick (o di van der Hecken) riflette sulla morte, qualunque cosa fosse l’argomento di cui sta scrivendo; il filosofo di Chardin non ne è invece minimamente turbato: nulla intorno a lui rimanda alla morte e lui può procedere serenamente nella lettura. Tra i due, c’è una frase di Spinoza: “L’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte e la sua sapienza è meditazione non della morte ma della vita”.
Curiosamente, il Moby Dick di Melville propone – nell’unica volta in cui il nome di Spinoza viene citato nel libro – un confronto non troppo dissimile da quello tra questi due quadri: “Potete afferrare l’espressione della testa del capodoglio, là dov’è appesa? E’ la stessa con cui è morto, soltanto qualcuna delle sue più lunghe rughe frontali sembra ora svanita. Credo che la sua larga fronte sia soffusa come di una placidezza di prateria, nata da una filosofica indifferenza verso la morte. Ma osservate l’espressione dell’altra testa. Guardate quello stupefacente labbro inferiore, schiacciato per caso contro il fianco della nave, in modo da serrare saldamente la mandibola. Non vi sembra che tutta questa testa parli di un’enorme risoluzione pratica nell’affrontare la morte? Penso che questa balena franca sia stata uno Stoico; e il capodoglio un Platonico, che magari nei suoi ultimi tempi si dava a Spinoza”. »

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